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Carloforte senza folla

Amo quest’isola quando i turisti sono assenti e i viaggiatori pochi e speciali.

Ieri sera gustando delle ottime trofie con carciofi e gamberi al Tonno di Corsa, chiacchieravo con due ragazzi di Modena che sono venuti a piedi da Iglesias, all’altro tavolo una coppia di finlandesi che visita la Sardegna solo d’inverno. L’energia dell’isola fuori stagione è luminosa e cristallina, i tabarkini sono rilassati perchè questa è la loro vera vita, non l’invasione estiva di decine di migliaia di turisti.

Dopo cena, attraversando la cittadina con i due ragazzi incontrati al ristorante, ascolto piccoli flash sulla loro impresa e capisco che viaggiare a piedi è il loro modo di vivere tutto più intensamente. La notte è illuminata da una luna gigantesca.

Concludiamo la serata al bar Napoleone, una vera istituzione di Carloforte, ci accoglie una saletta con comode poltroncine, wi-fi potente e una cameriera simpatica che ci racconta da dove deriva il nome degli abitanti di San Pietro: tabarkini. Tabarka era una città ai confini della Tunisia, colonizzata in tempi antichi da un gruppo di abitanti di Pegli, un quartiere di Genova, che ci abitò per vari secoli. In seguito, molti di loro si trasferirono in Sardegna, nell'Isola disabitata di San Pietro, dove fondarono Carloforte. Dunque quest’isola ha un’anima genovese, che è evidente nel dialetto parlato ancora da tutti e preservato con amore.

Rientro a casa lungo i caruggi silenziosi, la temperatura è mite e il cielo invaso di stelle, domani sarà una bella giornata.

Oggi il cielo di Carloforte è pieno di voli.

Mentre costeggio la salina, un enorme fenicottero rosa mi passa sopra la testa; agita ali possenti starnazzando in continuazione, forse annuncia il suo arrivo agli altri che pascolano tranquilli nell’acqua, è troppo rosa per appartenere alla comunità tutta bianca di questo stagno.

Dopo di lui passa una garzetta, inconfondibile per come ripiega il collo verso il corpo quando vola, seguita dall’incrocio di tre gabbiani che planano lentamente nel maestralino. Mi sento libera come loro mentre respiro a fondo quest'aria incontaminata,

Scopro la natura selvaggia dell’isola e guardandomi intorno, non smetto di meravigliarmi per ogni forma di vita. Al sole che sa già di primavera, risponde il verde novello delle sponde, macchiato di ranuncoli gialli appena nati.

Sono diretta verso un luogo che chiamano Busselli, a sud dell’isola; con l’aiuto di Rilla, l’artista che mi ospita, ho trovato la strada sterrata che conduce lì, ma dopo il primo pezzo, quello che ho davanti è un sentiero stretto e impraticabile, devo decidere se rischiare di trovarmi bloccata in qualche buca fangosa oppure procedere a piedi, ma non so per quanti chilometri. Oltre a questo, durante una breve ricognizione, scopro che non c’è campo per il cellulare, se succede qualcosa sono completamente isolata. Mentre rifletto sul da farsi, un uccello volteggia alto sopra la mia testa, cerco di capire la sua specie dalla forma delle ali e dal volo, quando il sole lo illumina è marroncino e ha la coda a forma di piccolo ventaglio. E' sicuramente un falco, ma è troppo presto per essere un falco della Regina, di solito arrivano dall’Africa per nidificare in aprile, probabilmente è un gheppio o un falco pellegrino.

Abbandono il quesito, decido di caricarmi lo zaino in spalla e mi avvio verso l’ignoto, cosa c’è di più stimolante?


Alla fine della strada mi inerpico su una salita ripida e sassosa, il suono delle onde mi guida, ecco sono in cima. Un cartello avverte: “Attenzione! Bordi delle falesie instabili”. Mentre mi avvicino al limite dello strapiombo sento quel tremito leggero alle gambe che preannuncia le vertigini, ma da tempo ho deciso di superare i miei limiti e resisto, con cautela cerco una base sicura su cui mettere i piedi e mi sporgo.

Da quell’altezza vedo il respiro profondo del mare che dall’orizzonte arriva a lambire di schiuma le basi delle torri di pietra su cui mi trovo. Davanti a me uno smisurato anfiteatro naturale dove il suono delle onde riecheggia insieme al vento e al tumulto delle mie emozioni.

Tutta questa bellezza mi scivola dentro di me attraverso occhi e orecchie, arriccia gli angoli del mio sorriso e rallenta il battito, quando arriva all’anima è già commozione. Percepisco fino in fondo la mia inconsistenza di fronte a quel mondo ciclopico nato nel cuore della terra milioni di anni fa.

Affronto una discesa di lastre di pietra e sassi, procedo con cautela, se inciampassi rotolerei inesorabilmente giù, ma all’arrivo mi premia un paesaggio di pinnacoli, mura e guglie che appare come un’antica città in rovina: mi siedo a contemplare l’incanto, ogni parte di me è aperta all’ascolto, mi perdo e dimentico il tempo.


Ritemprata risalgo la china, cercando un sasso da portare con me, una sorta di bonsai delle falesie, che possa sempre riportarmi alla mente la visione di questo luogo. Arrivata in cima girovago in mezzo alla macchia folta di cisti, ginepri carichi di bacche, lentischi, rosmarini fioriti, osservare ogni piccola forma di vita è una gioia, annuso le foglie delle piante che non conosco e scopro un sentiero che si allunga parallelo alla costa.

Mentre lo percorro, un piccolo ginepro attira il mio sguardo, un minuscolo eroe nato nella roccia cresce impavido al di sopra di tutto.

La vita straripa ovunque, dalle fessure delle rocce, dalle radici secche degli arbusti e si adatta per sopravvivere al vento; le stesse piante che altrove sono alberi di grandi dimensioni, qui si sviluppano strisciando sul terreno o in cuscini tondeggianti.

Lontano, all’orizzonte, le lunghe mura di pietra dell’anfiteatro, viste da questa prospettiva, assomigliano più a un serpente sinuoso che si dirige verso il largo.


Ritrovo l’auto e mentre ripercorro la strada sterrata un coniglio selvatico mi taglia la strada, è marrone con le zampette e il codino bianco, mi immobilizzo per guardarlo mentre si allontana nella macchia. In che mondo incantato sono capitata?

Me lo sto ancora chiedendo, quando riguadagnata la strada asfaltata mi dirigo verso la prossima destinazione, le famose Colonne. Lungo i bordi della strada, prati verdi, fattorie e mucche che pascolano. Un flash mi riempie gli occhi, ho visto bene? Freno, lentamente indietreggio, abbasso il finestrino: un airone bianco è fermo immobile e ieratico accanto al muso di una mucca, bianca anche lei, che sta ruminando. Stacco velocemente il cellulare dal supporto che serve da navigatore e scatto, ma una frazione di secondo troppo tardi, la foto lo ritrae mentre sta prendendo il volo.

Cercando di arrivare alle famose Colonne, simbolo dell’isola, mi perdo, la signorina Gps ha i soliti vuoti di memoria. Per fortuna un tabarkino a cui chiedo informazioni, fa inversione di marcia per accompagnarmi con la sua auto fino all’imbocco della strada; la gentilezza che aleggia su quest’isola appare ormai

leggendaria.

Un comodo sentiero lastricato permette di vedere le Colonne dall’alto, una delle due è consumata dall’erosione di mare e vento.

Si avvicina un signore anziano, mi chiede se è la prima volta che vengo a Carloforte e mi racconta che le colonne una volta erano molte di più, sei o sette, poi pian piano sono state distrutte dal maestrale che quando soffia qui ha una forza considerevole.

Mentre inquadro il paesaggio, mi accorgo di un gabbiano fermo proprio in cima alla colonna più alta, ha scelto la postazione migliore per riposarsi e contemplare il tramonto che inizia proprio ora.


















Al ritorno verso il centro di Carloforte, ripasso dalle saline, ora tutto appare nitido sull’acqua specchio, la colonia di fenicotteri si è radunata numerosa e forma una macchia bianca, Carloforte all’orizzonte appare distratta e quasi inconsapevole dell’infinita bellezza della sua isola.

Ultimo giorno a Carloforte, il tempo di riflettere su questa esperienza prima che la nave mi riporti in terraferma. Salgo fino al faro di Capo Sandalo, questa costa a occidente dell’isola ha formazioni di roccia vulcanica diverse dai luoghi che ho visto finora.

Mi aggiro lungo i bordi del promontorio per fotografarne l’aspetto stratiforme e al ritorno sul piazzale, vedo un ragazzo che parcheggia una vecchia motocicletta accanto alla mia auto, siamo gli unici visitatori, viene spontaneo iniziare a parlare. Lavora alla Lipu, la lega per la protezione degli uccelli in Italia, che ha una sede poco lontano da lì, a cala Fico, ed è venuto quassù per mangiare un panino davanti alla vista che spazia dal faro all’isolotto del Corno, al mare aperto.

Cala Fico

Mi invita quando tornerò, a percorrere il Sentiero Verde, un trekking che da cala Fico attraversa le rocce modellate dal vento e dalla pioggia, le più interessanti di questa costa. Qui le chiamano ciazzette.

Parliamo anche degli incendi che stanno devastando l'Australia, 7 milioni di ettari di bosco distrutti e 1 miliardo di animali uccisi. Sta succedendo proprio ora e anche se lontano, entrambi non possiamo sentirci immuni al pensiero di una tale perdita.

Ci salutiamo con molta tristezza negli occhi.

Dalle grandi finestre della nave semideserta di Delcomar che mi porta via dall’isola, ripenso alle meraviglie che ho vissuto e che vedo allontanarsi, ma come si dice, quello che hai vissuto rimarrà per sempre dentro di te.

Accanto a me due ragazzi mangiano patatine, commentando agitati una partita di calcio che risuona dal telefonino. Si accorgono che li sto guardando e mi spiegano quello che sta succedendo.

Come nella vita, si vince e si perde, ma il viaggio continua.


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